Stare, sconvolti, al passo con la crisi

Maggio, 2024
11 minuti di lettura

(testo inedito, del 1985)

Romana Loda

Finalmente, dopo tante chiacchiere a mezza voce, nelle gallerie sempre più tetre e deserte, il fatto è diventato di dominio pubblico: la crisi generale ha spazzato via ogni residua illusione, e l’arte, che ne è sempre stata una delle fabbriche più accreditate, ha ricevuto i contraccolpi che le erano dovuti. Tutta l’arte, naturalmente, di ogni tendenza, ma in maggior misura quella che viene generalmente denominata di ricerca e stipata sotto l’ombrello dell’avanguardia.

Certo era prevedibile, data l’abbondanza di segnali premonitori, ma ciò non ha impedito che molti addetti ne siano stati colti alla sprovvista, come certi abitanti dell’antica Pompei, pietrificati sulla soglia di casa nel convulso movimento della fuga. E anche questo è normale, a ben pensarci, data la presenza sulla scena di numerosi speculatori, che si erano messi “in arte” dopo aver constatato che il suo commercio era più redditizio di quello dei mandaranci e delle olive col buco. Quando cioè nel campo agivano stormi di critici e galoppini, mercanti e galleristi sempre solleciti nell’avallare ogni prodotto ripulito, riverniciato e leccato, allo scopo di tenere in continua eccitazione l’interesse dei neo-collezionisti che scoprivano la magica esperienza dell’acquisto di beni d’investimento da appendere alle pareti di casa. Beni che, oltre al plus valore montante, diventavano importanti status symbols anche quando erano meno belli e lasciavano alquanto più perplessi dei buoni del tesoro.

Tutto procedeva bene insomma, in un’atmosfera di spensieratezza che aveva contribuito a sovvertire persino le più elementari leggi dell’economia (il venditore e il compratore si trovavano più facilmente d’accordo quando il prezzo era molto alto), fino alla formulazione di utopistiche teorie basate su una crescita di un benessere senza limite.

Inevitabile pertanto uno stato di profondo disagio e di autentico sconcerto, di fronte al montare di realtà profondamente diverse e del tutto consequenziale un fuggi fuggi generale e un precipitoso dirottamento verso fonti di investimento diventate nel frattempo più sicure. Non così per tutti, dato che sotto la schiuma dell’improvvisazione operano da sempre grosse società finanziarie che non solo sono attente all’evolversi delle situazioni, ma cercano in gran parte di pilotarle, prevedendo i movimenti d’opinione e costruendovi sopra i santuari del consenso.

Per queste società multinazionali una crisi è un momento come un altro del diagramma produttivo, forse più importante di altri per gli ampi spazi che può mettere a disposizione per nuove scorribande cultural-economiche.  Da esse è partito l’ordine a “voltare pagina”, predisponendo il terreno per il periodo della crisi e della inevitabile successiva restaurazione. Un lavoro complesso, dato che non si tratta solo di rifare le vetrine, ma occorre reclutare quei “facitori di cultura” (critici, editori, direttori di musei, galleristi, mercanti) che abbiano un peso mondanosufficienteper portare avanti l’operazione.  Una impresa di cui tutto deve essere calcolato e programmato, cominciando proprio con la sintonizzazione con le onde vaganti delle oscillazioni del gusto comune.

Come sempre succede la partenza viene sempre data nelle società affluenti delle nazioni a cosiddetto capitalismo avanzato, là dove si è più vicini alla meta del mercato totale, anzi del supermercato universale; di qui si passerà poi alla massiccia esportazione nei paesi satelliti, avendo cura di lasciare un giusto margine per connotazioni nazionalistiche, che non può guastare il disegno d’insieme. Così negli Stati Uniti il pubblico ha assistito alla comparizione in gallerie e musei, che prima erano i templi delle asettiche e rarefatte comparizioni del concettualismo, una serie di quadri e quadretti dipinti figurativamente nella maniera più casuale e “idiota”. Contemporaneamente è stata messa in funzione la più complessa macchina dei mass-media con definizioni di vario genere, dalla seriosa e ipocrita “Nuova immagine”  alla più diretta “Bad painting “ (cattiva pittura), che ha risposto pienamente alla necessità di imbrigliare lì operazione con una formula ad effetto.

Pittura viscerale, pittura corporale, pittura “fatta a mano”, in contrapposizione al “tutto confezionato”; pittura dichiaratamente senza presupposti e sganciata dalla realtà politico –sociale, tesa al recupero di motivi puramente interiori e fini a se stessi.  Assieme all’autobiografismo spicciolo vi è, dichiarato, il rifiuto di ogni canone del gusto e la sistematizzazione di un’arte miserabile alla quale è stata spuntata persino la freccia ironica del Kitsch autentico. Per finire, ma è il fatto più importante, il totale abbandono di ogni velleità rivoluzionaria, se mai ve n’era stata in precedenza.

Inutile qui voler ricostruire le tappe della penetrazione in Europa, perché è cosa ormai fatta, anche se l’espansione è ancora in atto.  In Italia si è voluto giocare in sovrappiù la carta del nazionalismo (nel rispetto dei margini più sopra accennati) coniando una serie di attributi formalmente diversi per il movimento e proponendolo al pubblico come spontaneo e autarchico. Si è parlato di post-moderno e di post-avanguardia, si è fatta una puntata  sulla pittura teatrica  e sulla nuova ondata, ma il termine che si è imposto per la sua sottile furbizia e che ormai è usato regolarmente è quello di “Trans-avanguardia”, diffuso da Achille Bonito Oliva, il portabandiera più funambolico del movimento, che egli non esita a spacciare come di sua invenzione, italianissimo e buono per l’esportazione (che bellezza !).

Il termine Trans-avanguardia è tetro, macabro, e richiama alla memoria la Transilvania, terra di Dracula, Nosferatu e tutta la famiglia dei vampiri, ma funziona ed è l’unica cosa che conta. Con esso si apre un immenso paracadute al quale si può appendere di tutto, a cominciare dal cattivo gusto più smaccato, fino alla totale mancanza di coscienza della realtà storica. Con esso si dichiara guerra a tutta quell’affannosa ricerca degli anni Sessanta e Settanta, denominata con l’etichetta meschina di “coazione al nuovo”.

È interessante notare che la parola che più frequentemente ricorre in chi scrive o parla di questo fenomeno è: finalmente. Infatti si afferma che l’arte “finalmente ritorna ai suoi motivi interni”; che “finalmente sono caduti i veli intellettualistici che impedivano al pubblico un sano godimento dell’arte”; che “finalmente l’arte ha perso la sua connotazione moralistica”; “finalmente le poetiche si sono diradate e ogni artista può operare attraverso una ricerca individuale che frantuma il gusto sociale”. E così si potrebbe proseguire all’infinito, sfogliando i bollettini dal fronte.

Bonito Oliva, il critico che da militante si è fatto militaree che per avallare questa nuova posizione non ha trovato di meglio che pubblicare una sua fotografia sulla rivista “Domus”, con in testa un elmo da guerriero, aggiunge: “l’ideologismo del poverismo e la tautologia dell’arte concettuale trovano un superamento in un nuovo atteggiamento che non predica alcun primato se non quello dell’arte e della flagranza dell’opera che ritrova piacere della propria esibizione, del proprio spessore della materia della pittura finalmente non più mortificata da incombenze ideologiche e da arrovellamenti puramente intellettuali” (1). Come si vede siamo in un’altra epoca, anche se è trascorso poco più di un anno da quando lo stesso signore scriveva altrettanto tranquillamente: “L’artista con il suo linguaggio non interroga solo la storia, ma la natura antropologica della collettività, anzi la domanda non è interlocutoria, ma si definisce come l’atto dell’interrogare. L’opera serve cioè a sviluppare la tensione a interrogare”(2).

In tempi meno recenti, anche se non proprio antichi, aveva teorizzato “ l’aspirazione a spostare l’arte da ideologia dell’ Io a ideologia del Noi (…) realizzandosi nell’esercito della Stella Rossa e nei gruppi rivoluzionari di tutto il mondo”, ma è inutile sollevare pietre col solo rischio di trovarvi sotto nidi di vipere. Le citazioni potrebbero essere molte di più ma non aggiungerebbero nulla a quanto già si è potuto capire. Il fatto da sottolineare è che questi nuovi scritti compaiono nelle stesse riviste d’avanguardia(“Flash Art”, “Domus”, “Art Dimension”, ecc…) che fino a ieri erano portavoce ufficiali di quell’ideologismo che ora finalmente viene spazzato via con grande tempismo. E non è certamente un caso se nelle immediate adiacenze degli scritti cosiddetti teorici si stampano intere pagine pubblicitarie (del costo di svariati milioni) di gallerie e mercanti che, guarda la combinazione, riproducono in tutta evidenza le opere che il pubblico finalmente può godersi, fino a sentire i giusti stimoli ad acquistare.

L’operazione è di un cinismo tanto sfacciato, che non manca di un certo fascino sinistro; dalle sue elucubrazioni escono alcuni giovinotti della penultima generazione (perché proprio giovanissimi non sono) che sono stati distolti dai loro penosi balbettamenti nel campo della processualità analitica e indirizzati verso questa “artistica defecazione”, certamente liberatoria in un’epoca dominata dai cibi in scatola e che segna il trionfo degli amari digestivi e dei lassativi. Un gioco fin troppo scoperto, ma senza dubbio di una sottile abilità: si prende atto che la crisi generale ha allentato il grado di attenzione e di concentrazione del pubblico e quindi si teorizza e si commissiona un’arte assolutamente senza problemi, oltre quello della sua flagrante banalità. Una specie di sub-arte adatta allo stato di sub-attenzione di un pubblico che, anziché sentirsi dileggiato, è portato a godere della vecchia e cara sensazione di considerarsi ancora “a livello”.

La catena degli avvenimenti è così innescata: i critici tirano un profondo sospiro di sollievo, potendo finalmente gettare alle ortiche quel concettualismo di cui han sempre detto un gran bene, ma che sempre hanno odiato ferocemente, soprattutto per la preminenza ideologica che dava all’artista; i galleristi pure sibilano un finalmente e ricominciano a far grondare le pareti bianche di tanti bei quadretti, che prima dovevano limitarsi a guardare di sottecchi dal barbiere, al ristorante, oppure in qualche allegra estemporanea di paese; gli artisti (certi artisti) possono smettere di contorcesi le budella alla ricerca di una elaborazione teoretica del loro lavoro ed estrarre dal sottoscala tutte le cianfrusaglie che prima non avevano osato mai a mostrare nemmeno in famiglia.

Tutto bene di nuovo, insomma, compresa una collocazione ancora una volta bohémienne dell’artista, fatto che era stato accanitamente combattuto. Finalmente le cose tornano al loro posto (nei loro loculi), compreso il fatto che si può parlare come si mangia e dipingere come si defeca. Così il critico può riprendere il suo ruolo terrorizzante adottando un linguaggio guerresco e citando trionfalmente la frase di Defoe: “Mi trovai costretto ad assumere il comando”.

E se questa non può essere propriamente definita una evoluzione niente paura, dato che si può tranquillamente disquisire sull’importanza dell’involuzione e del riflusso nella sfera del sentimental. Così pure se il voltafaccia è tanto smaccato da risultare stridente e sospetto, si può sempre ricorrere a formule del tipo “l’arte è zitella dedita all’autoerotismo”(4). Non significa nulla, ma fa tanto lacaniano in un ambiente dominato da gruppi mafiosi e invasati che si eccitano sull’esercizio del non-sense, organizzando tre convegni al dì allo scopo di analizzare non i nuclei dei problemi, ma i bordi, gli orli, le frange, le asole e così via.

Un altro tratto saliente della trans-operazione è la ricerca della fotogenia dei prodotti, dato che sono destinati soprattutto alle pagine delle riviste convertitesi rapidamente alla trans-pubblicità. Mi è capitato infatti di assistere a una scenetta rivelatrice in una galleria d’arte ove erano esposti i prodotti della recente digestione: “Oh, che bei quadretti” disse una visitatrice, e il gallerista sollecito rispose: “Questo è niente. Li vedrà in fotografia nel prossimo numero di ‘Flash Art’”. Il che, francamente, deve essere una bella consolazione per l’acquirente!

Ma queste annotazioni possono sembrare non fondamentali, anche se servono a definire meglio il fenomeno. È certamente più importante registrare lo strabiliante sostegno che alcuni artisti della generazione precedente, i cosiddetti “coercizzati al nuovo” degli anni Sessanta-Settanta, offrono all’intera speculazione. Infatti spuntano un po’ ovunque collettive private e pubbliche nelle quali si trovano gli “stitici” della vecchia neo-avanguardia (quale spreco di terminologie !) accanto ai trans-diarrotici. È evidente che i primi sono visceralmente stimolati dal nuovo avvicinamento e, nello stesso tempo, prefigurano la possibilità di uscire dal confronto consacrati come dei “piccoli maestri” che hanno generato i discepoli (entrambi i termini, non occorre dirlo, sono fortemente eufemistici). Non si potrebbe spiegare altrimenti il consenso che i Merz, Paolini, Calzolari, Mochetti, Zorio, Prini, Boetti, Anselmo, Penone, Pisani e altri, offrono ai Cucchi, Chia, Clemente, De Maria, Paladino, ecc., partecipando a manifestazioni comuni (5). Artisti, i primi, che al di là dei pur notevoli risultati ottenuti, si sono impegnati per anni a dare alla loro figura professionale una connotazione ideologica, che li sollevasse dalle pozzanghere di certo romanticismo di terza lega. Ora stanno con gli altri immersi nella melma più densa, sconvolti, ma al passo del nuovo militarismo critico.

Questi i fatti nella loro lineare oggettività, che però non riescono a spiegare tutte le motivazioni profonde. Chi vive nella giungla dell’arte è al corrente dei ricatti che possono essere messi in atto, ma è evidente che c’è un limite a tutto, o almeno dovrebbe esserci. È quindi legittimo il fatto che la teorizzazione del grande Vuoto non sia che la punta emergente di un grande ice-berg e che sotto si estenda immensa la montagna contro la quale sono destinati ad infrangersi tutti quei movimenti di pensiero che hanno caratterizzato le speranze degli ultimi dieci – quindici anni. L’inquietudine è legata al timore che questo voler cavalcare la crisi ad ogni costo, questo voler riaffermare la supremazia della mediocrità piccolo-borghese, non sia strumentale come si vuole far credere. È la crisi, caso mai, che usa cinicamente gli strumenti che essa stessa ha generato, giocandoli in una partita in cui le sorti sono già decretate, anche se restano momentaneamente avvolte nelle nebbie. L’arte obbedisce a regole dettate altrove, e ciò spiega il suo scendere di qualche gradino e farsi da prodotto del cervello, prodotto delle viscere. Il Kitsch viene elevato a sistema stesso della sola felicità possibile, in vista di felicità future. La storia è piena di questi fatti. L’artista è usato come una semplice mano; il critico detta il passo e da militante diventa militare, teorizzando la necessità di “prendere il comando” per riportare ordine anche in un campo pericolosamente aperto anche a molte altre scorribande.

Non si può fare a meno quindi di ripensare a tempi diversi, ma non dissimili; tempi in cui Hans Makart dipingeva i suoi quadri tanto godibili, definiti “diarroici” da Feuerbach, e a proposito dei quali Hauser ha scritto “sanno risvegliare nella gente nel modo meno esigente e meno faticoso la sensazione della contentezza di sé (…), aneddoti che trasformano la vita con tutte le sue preoccupazioni e i suoi bisogni in un gioco innocuo” (6). Il fatto è che Makart, per chi l’avesse dimenticato, era il pittore preferito in assoluto da Hitler…..

Romana Loda mentre osserva il marito, Franco Loda, intento ad attaccare alcuni quadretti nell’ingresso di casa. Courtesy Archivio Michele Loda.

  • N.R. Nel 1985 Romana Loda, che non aveva potuto partecipare al convegno Ipotesi d’artista (tenutosi a Bologna nel giugno 1984), spedì inaspettatamente questo testo ad Anna Valeria Borsari e Ginestra Calzolari, e si sperò di poterlo ancora inserire negli Atti del convegno stesso, ma purtroppo l’editore già stava ultimandone la stampa.  Il dattiloscritto,  conservato con cura in tutti questi anni, viene qui pubblicato certo per motivi di antica stima ed amicizia, ma soprattutto perché altamente significativo di un contesto storico di cui restano poche testimonianze, e che dovrebbe esser analizzato ulteriormente. Lo scritto, ironico e tagliente, evidenzia il profondo interesse e la preoccupazione di Romana Loda per questioni  di carattere  socio-culturale di cui molti al tempo non avevano nemmeno compreso l’importanza e la gravità, ed evidenzia inoltre la sua capacità di esporsi apertamente, secondo le sue idee e la sua etica,  quando la maggior parte della più autorevole critica si adattava – spesso in modo opportunistico – alla situazione, o si limitava a dissentire con molta diplomazia.  
  1. Achille Bonito Oliva, La transavanguardia italiana, “Flash Art”,  ottobre-novembre 1979
  2. Id., Autocritico-Automobile attraverso le avanguardie, Ed. il Formichiere, Milano 1977
  3. Id., Scritto di chiarificazione ideologica e politica, “Tempi moderni”, n. 12, 1972
  4. Id., Interni, in L’arte, la psicanalisi, Ed. Feltrinelli, Milano 1979
  5. Mostra Le stanze, organizzata da Achille Bonito Oliva nel castello Colonna di Gennazzano, gennaio 1980.
  6. N.R. La nota non compariva nel dattiloscritto di Romana Loda e non si sono trovati i riferimenti bibliografici della citazione. 

(Romana Grassi, 1937- 2010) è stata critico d’arte, curatrice, gallerista. Viveva a Sale Marasino, in una grande casa affacciata sul lago d’Iseo. Nel 1975 ha fondato e diretto la galleria Multimedia ad Erbusco, ove ha realizzato mostre personali a Emilio Villa, che considerava suo maestro, Verita Monselles, Ketty La Rocca, Eliseo Mattiacci e altri. Ha quindi spostato la sua galleria a Brescia, prima in via Aleardi, poi in via Calzavellia 20, realizzandovi dal 1981 varie mostre ed iniziative. Resasi conto della discriminazione di cui erano vittime le donne artiste, nel 1974 aveva organizzato la prima mostra di sole donne, Coazione a mostrare, al Palazzo di Erbusco, con opere di 30 importanti artiste (tra cui Carla Accardi, Diana Arbus, Sonia Delaunay, Yoko Ono, Gina Pane), scusandosi di non aver potuto allargare l’invito ad altre, ed inserendovi un “omaggio” a Lucio Fontana. Dal ’78 ha poi portato avanti mostre in cui, oltre ad una circoscritta cerchia di artiste, vi era una sola presenza maschile (specularmente a quanto in genere avveniva in collettive in cui le presenze femminili erano rare). Alla sua attività sono stati recentemente dedicati, tra l’altro, vari saggi di Raffaella Perna, un volume a cura di Giuseppe Marchetti e Chiara Pasquali (Romana Loda, il cuore a destra, Coazione a mostrare ’74, La Quadra editrice, Iseo 2022).

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